Devo andare in Brasile, mia terra natia, per lavoro.
Un mese fa l’idea è stata presentata e qualche giorno fa approvata.
Saranno circa due settimane di viaggio in diverse città del Brasile meridionale; tra cui San Paolo, dove sono nato e cresciuto.
Sono quattro gli anni ormai che mi separano da San Paolo e dal Brasile.
Prima di vivere in Italia non me ne fregava niente delle stagioni. Tanto a San Paolo erano otto o nove mesi di caldo quasi costante. Certo non quel caldo dell’estate europea – soffocante, afoso, affannoso, insopportabile.
Quel succedersi di giorni dalla stessa durata, indipendentemente dalla stagione, con l’alba e il tramonto a orari costanti, mi trasmetteva un’impressione di continuità, di regolarità. Anzi, me la passa ora; perché allora non me ne accorgevo, infatti, pensavo solo che in Europa per fortuna ci sarebbe stata una temperatura molto più fresca, mite. Poi a natale con il sole in alto che bruciava a mille e a Ferragosto sotto le coperte…
Cazzo, Agosto mi sembra una canzone così azzeccata, non solo per quanto riguarda la prospettiva individuale, emotiva dei (non) rapporti; saranno i Perturbazione già vissuti in Brasile?
Non aver mai visto fino a quattro anni fa le foglie che cadono d’autunno, la neve che imbianca l’inverno e i fiori che nascono in primavera mi impediva di commuovermi allora; a tal punto di non essere in grado ancora di capire se quello che ora mi commuove è la presenza di tali fenomeni o la cognizione dell’assenza di prima.
Vorrei una tranquillità tale da anestetizzarmi all’uscita dell’aeroporto, da perfezionarmi i sensi di fronte alla potenziale valanga di suoni immagini pensieri emozioni.
L’ultima volta che sono sbarcato a San Paolo, sei anni fa, uscendo dall’aeroporto, sudavo; appena la porta d’uscita si è aperta, ho cominciato a sudare, subito. In seguito ho potuto ritrovare i miei cari, risentire il portoghese per strada, rivedere il viavai della gente, l’inquinamento, il traffico, i viali larghissimi, i grattacieli, le pizzerie, le rosticcerie.
Sei anni fa ero venuto in Italia per un corso di durata di un mese.
Tornare è un’illusione, bella o brutta che sia. Bisogna essere profondamente vivi per constatare chiaramente quello con cui ci si trova in un viaggio, soprattutto se si tratta di un viaggio verso il luogo in cui si è nati e cresciuti.
Ho fatto un sogno stupido: eravamo io e Bob Dylan (quello di Modern Times) in un locale, una discoteca, nella cabina del DJ cercando la canzone più adatta all’annuncio che stavamo per fare agli invitati, cioè del nostro matrimonio. La canzone l’ho scelta io, era Just Like A Woman. Mentre scrivo, adesso, mi viene da ridere, ma quando mi sono svegliato sono rimasto veramente terrorizzato. No, nel sogno non ci siamo baciati né altro, assolutamente.
Spero mi avanzerà un po’ di tempo, per suonare nella vecchia sala prove con gli amici, come si faceva una volta, cioè opportunamente muniti di birra, con allegria, melodia e feedback.
Altrimenti invocherei Ian Curtis, che forse sarà l’esule da cui voglio di più allontanarmi in questi giorni, a cantare mentalmente con me La rosa dei 20, che sarebbe stata la vera canzone per questo racconto. Ormai tutti sapranno che i New Order non hanno niente a che vedere con Ian e che d’altronde sono da schifo dal vivo.
Come sarà sapere dove ci si trova? Non lo so.
Anche questo è vivere.
Ah, mi piacciono i New Order, dopotutto.
Un mese fa l’idea è stata presentata e qualche giorno fa approvata.
Saranno circa due settimane di viaggio in diverse città del Brasile meridionale; tra cui San Paolo, dove sono nato e cresciuto.
Sono quattro gli anni ormai che mi separano da San Paolo e dal Brasile.
Prima di vivere in Italia non me ne fregava niente delle stagioni. Tanto a San Paolo erano otto o nove mesi di caldo quasi costante. Certo non quel caldo dell’estate europea – soffocante, afoso, affannoso, insopportabile.
Quel succedersi di giorni dalla stessa durata, indipendentemente dalla stagione, con l’alba e il tramonto a orari costanti, mi trasmetteva un’impressione di continuità, di regolarità. Anzi, me la passa ora; perché allora non me ne accorgevo, infatti, pensavo solo che in Europa per fortuna ci sarebbe stata una temperatura molto più fresca, mite. Poi a natale con il sole in alto che bruciava a mille e a Ferragosto sotto le coperte…
Cazzo, Agosto mi sembra una canzone così azzeccata, non solo per quanto riguarda la prospettiva individuale, emotiva dei (non) rapporti; saranno i Perturbazione già vissuti in Brasile?
Non aver mai visto fino a quattro anni fa le foglie che cadono d’autunno, la neve che imbianca l’inverno e i fiori che nascono in primavera mi impediva di commuovermi allora; a tal punto di non essere in grado ancora di capire se quello che ora mi commuove è la presenza di tali fenomeni o la cognizione dell’assenza di prima.
Vorrei una tranquillità tale da anestetizzarmi all’uscita dell’aeroporto, da perfezionarmi i sensi di fronte alla potenziale valanga di suoni immagini pensieri emozioni.
L’ultima volta che sono sbarcato a San Paolo, sei anni fa, uscendo dall’aeroporto, sudavo; appena la porta d’uscita si è aperta, ho cominciato a sudare, subito. In seguito ho potuto ritrovare i miei cari, risentire il portoghese per strada, rivedere il viavai della gente, l’inquinamento, il traffico, i viali larghissimi, i grattacieli, le pizzerie, le rosticcerie.
Sei anni fa ero venuto in Italia per un corso di durata di un mese.
Tornare è un’illusione, bella o brutta che sia. Bisogna essere profondamente vivi per constatare chiaramente quello con cui ci si trova in un viaggio, soprattutto se si tratta di un viaggio verso il luogo in cui si è nati e cresciuti.
Ho fatto un sogno stupido: eravamo io e Bob Dylan (quello di Modern Times) in un locale, una discoteca, nella cabina del DJ cercando la canzone più adatta all’annuncio che stavamo per fare agli invitati, cioè del nostro matrimonio. La canzone l’ho scelta io, era Just Like A Woman. Mentre scrivo, adesso, mi viene da ridere, ma quando mi sono svegliato sono rimasto veramente terrorizzato. No, nel sogno non ci siamo baciati né altro, assolutamente.
Spero mi avanzerà un po’ di tempo, per suonare nella vecchia sala prove con gli amici, come si faceva una volta, cioè opportunamente muniti di birra, con allegria, melodia e feedback.
Altrimenti invocherei Ian Curtis, che forse sarà l’esule da cui voglio di più allontanarmi in questi giorni, a cantare mentalmente con me La rosa dei 20, che sarebbe stata la vera canzone per questo racconto. Ormai tutti sapranno che i New Order non hanno niente a che vedere con Ian e che d’altronde sono da schifo dal vivo.
Come sarà sapere dove ci si trova? Non lo so.
Anche questo è vivere.
Ah, mi piacciono i New Order, dopotutto.